Mea culpa
Salve,
Mi chiamo Guglielmo, per i più mi chiamo semplicemente Gu. Vi ricorderete di me per post emotivi come la Formula 3 Europea ad Hockenheim ed una serie situazioni improbabili vissute nel box Prema (semicit. di Simpsoniana memoria). Questa volta approfitto del mezzo fornitomi con audacia dal Sig. Veloce Giro perché mi pento e mi dolgo dei miei peccati, faccio mea culpa, anzi mea Gulpa.
Sono un normalissimo appassionato di Motori, seguo la Formula 1 da sempre: il weekend mi spalmo sul divano, guardo le gare, le commento; durante l’anno giudico, pontifico e critico tutto quel che viene deciso nelle stanze dei bottoni, mi arrogo il diritto di farlo perché sono appassionato e quindi ho nella mia mente le soluzioni a tutti i problemi di un mondo così complesso. Punto. Succede che poco più di 6 anni fa a Suzuka avviene una tragedia, una di quelle che sembravano non poter appartenere più al mondo delle corse. Tragedia evitabile? Si. Sentenza data col senno di poi? Certamente.
Per più di 40 anni nessuno aveva mai pensato che andare a tutto gas in corsia box fosse un atto di follia pura. Un giorno fu presa una decisione (criticata persino da alcuni piloti) di mettere un limite di velocità per entrare ed uscire dal pit. Un limite di velocità. Durante un Gran Premio di Formula 1. Nel 2020 vediamo registrazioni appartenenti al secolo scorso in cui i vari Senna, Piquet e via discorrendo andavano a tutta velocità a pochi centimetri di distanza da orde di meccanici in bermuda e T-shirt. All’epoca era normale, per noi oggi quella era follia pura. Leggera digressione per ricordarvi che per decenni abbiamo visto trattori a bordo pista senza vedere sempre una Safety Car neutralizzare una gara. Dopo Suzuka 2014 rivediamo gare passate e simili situazioni di pericolo senza una neutralizzazione della gara e pensiamo “quanto sia stato folle non averci pensato prima d’ora”. Ragionamento simile fatto con i limiti di velocità in pit lane, se non uguale.
Dopo quel fattaccio la FIA si rende conto che bisogna proteggere la testa dei piloti. Nasce così l’Halo. Iniziano i primi test tra il 2016 ed il 2017 e tutti, guardando quel “coso” davanti la testa dei piloti rimaniamo sgomenti, inorriditi. Pensiamo che ai piani alti della Federazione qualcuno stia dando i numeri, che ci si voglia lavare la coscienza dall’incidente di Suzuka. Ci giurano e spergiurano che è fatto tutto in nome della sicurezza di chi corre. Arriva il 2018 e con sé l’entrata in vigore di quel tubo in titanio che rende i camera car orrendi, che non ti fa vedere bene i caschi dei piloti, che queste auto sembrano diventate delle infradito per il mare. A volte mi son lasciato andare con altre persone a giudizi sopra le righe, lo ammetto. Siamo arrivati oramai alla terza stagione della sua entrata in vigore. Guardiamo gare antecedenti al suo arrivo e vediamo delle monoposto più belle, un minor senso di claustrofobia pensando ai piloti lì sotto. Io al tempo stesso inizio però a pensare anche una cosa che non avevo mai ponderato prima del 2018: “si ma porca miseria, ‘sti qui andavano a queste velocità con la testa e la faccia protetta dal solo casco?”.
Il 29 novembre 2020 possiamo dire di non aver vissuto (incredibilmente quest’anno) una tragedia. E mettetevi nei panni di un calciofilo di Napoli come il sottoscritto, che nella stessa settimana di morti da piangere ne ha già patita una di non poco conto.
Ebbene questo giorno è anche quello dove bisogna soltanto cospargersi il capo di cenere, fare un bagno di umiltà, per aver sentenziato dall’alto delle proprie incompetenze.
L’Halo serve. Ha salvato un pilota, un uomo, un padre di famiglia da una morte che è sembrata quasi certa. Non sarà bello, non sarà perfetto, ma intanto ha evitato una tragedia.
Sono un normalissimo appassionato di Motori.
Uno dei più scarsi.