Spa Francorchamps: a mai più rivederci (forse)
Quest’anno è stato l’anno dei record, l’anno delle prime volte. Purtroppo, non sempre positive.
Il Gran Premio del Belgio del 2021 se lo ricorderanno tutti, per sempre, come la più grande farsa mai messa in atto nella storia della Formula Uno. Io, personalmente, lo ricorderò come un incubo ad occhi aperti, uno di quelli da cui temi di non svegliarti più.
Le previsioni meteo non erano delle più felici, e il meteo inclemente già dal sabato pomeriggio, eppure questo non ci aveva fermati. Eravamo preparati, pronti a tutto, e poi cosa vuoi che siano due gocce d’acqua, quando stai per vivere un’esperienza del genere?
Abbiamo passato quasi otto ore sotto la pioggia battente, fradici e infreddoliti, senza alcuna informazione, con la cover di Beggin’ dei Maneskin a inframezzare gli aggiornamenti meteo costantemente rimandati, in attesa di un GP che non sarebbe mai iniziato. Abbiamo aspettato schiarite che sapevamo non sarebbero mai arrivate, chiedendoci per quale ragione non annunciassero la cancellazione della gara, con la cieca fede di chi non vuole arrendersi.

Cosa che abbiamo fatto, alla fine, nel tardo pomeriggio, quando le bandiere rosse hanno interrotto il Gran Premio dopo appena due giri dietro safety car. Abbiamo camminato dalla Campus all’Eau Rouge per uscire dal circuito prima dell’evacuazione generale e salire su una navetta piena ai limiti della decenza, stipata di gente zuppa e bambini in lacrime. C’era silenzio, però, e un sacco di facce scure.
Siamo entrati senza speranza di sederci, aggrappandoci alle maniglie per non scivolare sul pavimento coperto di fango, coscienti che il viaggio sarebbe stato lunghissimo considerato il meteo e la quantità di gente presente all’evento. Siamo rimasti un’ora e dieci letteralmente immobili nel parcheggio, congelati, bagnati fradici e sporchi, in mezzo al bosco, incolonnati in una coda infinita di macchine che si estendeva per chilometri e chilometri. Abbiamo iniziato a passarci buste di plastica per sederci per terra, incastrati schiena contro schiena.
Quando l’autobus è finalmente partito, ovviamente il traffico era ancora folle, e abbiamo percorso ventidue chilometri in più di due ore. Pensavamo fosse finita, ma arrivati alla stazione di Verviers, abbiamo scoperto di aver perso l’ultimo bus per Liège. Il calvario era appena iniziato.
Per un po’, è stato il panico. Più di sessanta persone letteralmente a terra e senza la minima idea di come tornare a casa, nemmeno lo straccio di un’alternativa. Niente uber, niente alberghi. I taxi non rispondevano e lasciavano in attesa. C’erano anche dei bambini, con noi. Sono stati momenti di incertezza e sconforto, in cui riecheggiavano nelle nostre orecchie le parole che ci erano state rivolte per tutto il giorno. Grazie per essere qui, grazie per la vostra pazienza.
Nella stazione, piccola e devastata dalle alluvioni che hanno colpito la Wallonia quest’anno, c’era un solo dipendente e non parlava una parola d’inglese (come la maggior parte delle persone, in questa parte del Belgio). Una signora messicana è riuscita ad avere una breve conversazione con lui, prima che si chiudesse a chiave nel suo ufficio, e ci ha informati che c’era un autobus in arrivo.
Davvero? Fantastico. Erano le dieci e dieci, e l’ultimo treno che da Liège ci avrebbe portati a Bruxelles partiva alle undici e cinque. Eravamo un po’ stretti coi tempi, ma avremmo dovuto farcela. Così abbiamo aspettato, ma non è mai arrivato.
Ma a che ora era previsto? Non era previsto, a quanto pare. Lo aveva chiamato il dipendente della stazione prima di barricarsi nel suo ufficio e smettere di rispondere alle nostre domande.
Abbiamo cercato di farci forza a vicenda, anche se eravamo stanchi e infreddoliti, bagnati e a digiuno. L’unica cosa che ci mandava avanti era l’idea di non essere soli. Abbiamo parlato per un’ora e oltre, senza bisogno di presentazioni, intervallando lingue diverse e condividendo le nostre impressioni. I soldi spesi, lo sconforto, le difficoltà.
Due ragazzi irlandesi avevano speso 450€ a testa per il solo ingresso della domenica, per dei posti in tribuna all’Eau Rouge. Una coppia se li era regalati per l’anniversario. Una comitiva sudamericana aveva inserito questo Gran Premio all’interno di un road trip per il centro Europa. Per molti di noi era il primo GP dal vivo e siamo stati tutti d’accordo nel dire che probabilmente sarà anche l’ultimo. Quantomeno a Spa.
Finalmente, alle undici e venti, dopo più di un’ora e mezza in piedi ad aspettare, abbiamo visto in lontananza i fari di un bus. Ci siamo precipitati alla fermata, battendo con i palmi delle mani sulla porta dal lato del conducente. Per Liège?
L’autista ci ha risposto di no, e il bambino di otto anni accanto a me ha iniziato a piangere. Ad essere completamente sincera, volevo farlo anche io. È stato l’impiegato della stazione, riemerso dal suo ufficio dopo un periodo di latitanza, a parlare fittamente con l’autista per spiegargli la situazione.
Dopo averci guardati in faccia, uno per uno, ha deciso di allungare il suo turno di un’altra ora e di portarci fino a Liège, dove c’era un altro bus ad attenderci. Ci siamo riversati all’interno come una mandria, urlando e ridendo, esaltati e felici. Appena seduti gli abbiamo fatto un lungo e commosso applauso. È stato lui il nostro driver of the day.
L’incubo sembrava finito e con il calo dell’adrenalina perfino le chiacchiere si sono diradate. Io pensavo alla doccia del mio albergo, alla valigia da preparare per tornare a casa.
Arrivati a Liège, la seconda batosta. Stazione deserta, non c’erano più bus.
Un inserviente ci ha scortati al piano superiore, ci ha dato dell’acqua e ci ha fatto usare il bagno. Era la prima volta in dieci/dodici ore. Siamo rimasti lì per un tempo indefinito, incerti su quali sarebbero state le mosse successive, ormai piuttosto convinti che avremmo perso il volo, che non saremmo tornati a casa.
C’è stato un breve passaparola, fra noi compagni di sventura, e ha iniziato a girare la voce che il nostro amico, l’impiegato della stazione di Verviers, si fosse prodigato davvero per cercare una soluzione, e stesse facendo arrivare dei taxi per accompagnarci a Bruxelles.
Le tempistiche sembravano lunghe, noi avevamo un volo da prendere alle sei del mattino, i telefoni scarichi e non mangiavamo nulla da ore. Un ragazzo di Padova ci ha prestato la sua powerbank, non smettevamo più di ringraziarlo. Più tardi, quella notte, abbiamo riempito sei taxi per Bruxelles, due per Bruges e uno per Maastricht. L’autista non aveva il radio navigatore e ci ha chiesto di cercare la strada su Google Maps.
Dopo sette ore, siamo a lasciarci alle spalle il GP del Belgio, a tornare in albergo in tempo per fare una doccia, mettere dei vestiti asciutti e prendere l’ennesima navetta, per l’aeroporto, questa volta.
Ci siamo detti che, in un modo o nell’altro, sarebbe stata un’esperienza indimenticabile, ma non sono sicura che ne sia valsa la pena.
A prescindere da tutto, c’è tanta tristezza.
Negli ultimi anni la Formula Uno sta cercando, seppur con difficoltà, di svecchiarsi ed evolversi, introducendo nuovi format e ritoccando il regolamento qua e là nel tentativo di avvicinare i giovani a questo sport. Francamente, non credo che siano gare troppo lunghe o macchine troppo sicure a rendere la Formula Uno inaccessibile per una certa fetta di pubblico, e quanto è successo domenica scorsa in Belgio ne è la prova.
A rendere difficile approcciarsi a questo sport è l’organizzazione inesistente, l’estrema difficoltà nelle comunicazioni, la gestione traballante di tutto quello che succede dentro e subito fuori dal circuito. È l’attenzione rivolta unicamente al lucro, senza tutele e senza alcun rispetto. Sono le quattro ore che sono servite alla direzione di gara per decidere di cancellare il Gran Premio trovando un cavillo per non garantire il rimborso dei biglietti.
Quello di Spa è sempre stato il mio circuito preferito, lo sognavo da quando ero bambina. Quando quest’anno si è creata, senza alcun preavviso, la possibilità concreta di vedere il Gran Premio dal vivo, non riuscivo a credere alla mia fortuna. Ho imparato (purtroppo) a mie spese che quando le cose sono troppo belle per essere vere, spesso non sono vere.
Amo questo sport e continuerò ad amare il circuito di Spa, ma se questi sono i termini, a mai più rivederci.