Il miglio rosso

Io voglio pubblicamente lamentarmi per un male che si diffonde settimana dopo settimana, mese dopo mese, senza che nessuno faccia niente per impedirlo.
Davvero, vorrei fare una denuncia presso la sede locale della polizia, o scrivere una lettera al Presidente della Repubblica, o presentare una richiesta firmata e timbrata presso il Parlamento dell’Unione Europea, per chiedere, da parte di tutto il popolo, di smetterla una buona volta con questo crimine internazionale, per mettere un punto a questa piaga che serpeggia nella nostra società: la pausa invernale della Formula 1.
Anche perché tutto ciò ha assunto più la forma di un romanzo di Stephen King, piuttosto che di un periodo di pace e relax. Tra poco inizieremo a non dormire e a vedere le auree sulle persone, a vendere oggetti maledetti o a uccidere il cane del vicino perché ci annoiamo.
È quasi finita: come i personaggi dei migliori racconti di quel matto, adesso conosciamo anche noi qualcosa di molto rosso e che ci porterà molto sconforto nei mesi a venire. In Shining era una doccia di sangue da una porta aperta in un albergo sperduto, per noi è una monoposto Ferrari, che ci farà provare egualmente quella tipica sensazione di disagio che può darti il rifacimento cinematografico di una strana donna non propriamente viva galleggiante in una vasca dentro una nota stanza. D’altronde sono cose abituali che capitano giornalmente, sapete…
Adesso manca il pezzo più difficile, come direbbe lui, quel terribile miglio verde, riferito a quel km abbondante che porta tra mille sofferenze alla fine, e non, come la sottoscritta ha sempre creduto prima di mettere le mani sul romanzo e scoprire di aver vissuto tutta la vita nella menzogna, al cereale delle minestre. Ecco, proprio no. Manca quel pezzo faticoso, appunto, che porta i carcerati alla sedia elettrica, e noi all’inizio della stagione e alla prima telecronaca. Ma vedete quanti simpatici paragoni riesco a fare?
A me manca la Formula 1 perché mi piacciono le certezze. Mi piace avere la sicura consapevolezza di dover aspettare il venerdì. Mi piace quella soddisfazione che sento quando la pit lane è aperta e la settimana ha finalmente senso. Mi piace svegliarmi il sabato e pensare che dopo un’ora di bla bla alla mattina ci saranno finalmente i fatti nel pomeriggio. Mi piace la sensazione continua e in realtà falsa di dover fare la pipì ogni cinque minuti prima della partenza, mi piace quel mutismo che fa capire a chiunque ci sia intorno a me che è giorno di gran premio durante il pranzo della domenica.
Nell’esatto momento in cui inizia la pausa invernale sembra che nulla vada via fluido, tutto è meccanico, ogni cosa si scontra alla fine della settimana con l’assenza della gara, come quando aspetti la cena in pizzeria e ti dicono che sono dispiaciuti ma la cucina ha chiuso. Datemi la mia pizza, vi prego.
L’affacciarsi su Melbourne per gli Australian Open non è stato abbastanza. Mi ha solo dato una nostalgia poco legata alla Formula 1, ma troppo a quella città. E se neanche Roger Federer può salvarci da qualcosa allora non c’è speranza: è proprio un romanzo dell’orrore.
Anche perché durante la pausa succede proprio quello che accade nei romanzi di King: improvvisamente dai tombini, dalle porte semichiuse, dalle ante accostate di un armadio, escono i fantasmi della noia. Nel nostro caso dalle tastiere, dalle mani poco indaffarate, filtrano parole molto spesso inutili, quasi sicuramente contraddicibili. Ed è la mancanza che ci porta a quello, è normale, è del tutto naturale cancellare quel piccolo vuoto di sceneggiatura con un poco di rumore gratuito.
L’importante è non diventare dannosi. Il danno è dietro l’angolo, nel caso fuggite, che non si sa mai. O non dite cattiverie, che non si sa mai neppure su quello.
Un’altra cosa che succede durante la pausa invernale infatti è che, in mancanza dei piloti, che molto saggiamente si nascondono o, con ancora più furbizia, si mimetizzano travestendosi da cantanti di Sanremo, serve trovare qualcuno con cui prendersela, magari qualcuno che non è mai abbastanza per il nostro concetto di ‘tifoso’, qualcuno che osa avere opinioni sue, opinioni poco popolari (il peggio del peggio), qualcuno che non sta mai in quello che crediamo essere il suo posto (ad esempio, la domanda che più incuriosisce questa platea e a cui dovremmo rispondere è: perché io in questo momento non sono in cucina, con il grembiule e la minigonna (che a quanto pare non guasta mai)? Non so cucinare. Okay.).
E state attenti perché a quanto pare lo sport nazionale più praticato è il tiro a segno, cit. certamente non mia, e contro ogni previsione niente è mai stato più vero.
“La cattiveria è come una droga che dà assuefazione” e se sei cattivo in un racconto di quelli ti finisce malissimo, tutti attenti.
In realtà il fatto è che niente si discosta da un romanzo di Stephen King più dello Sport. A noi la pausa invernale fa male non perché ci manca qualcosa da vedere in tv, non perché ci ritroviamo ad annoiarci alle tre del pomeriggio di domenica. In realtà ci dà solo tempo in più per un sonnellino, per fare i compiti, per dare fastidio alla vicina impicciona mettendo la musica ad un volume un poco troppo alto. No, non sono io a farlo… forse.
Comunque.
A noi la pausa invernale fa rimanere seduti sul divano con il broncio perché ci manca la solidità data da qualcosa che non cambia nella sua essenza, pur cambiando, a volte troppo, nella forma. Perché ogni giro di pista che seguiamo non ha nulla nascosto dietro. Ogni intervallo di tempo misurato dal cronometro non ci dice bugie, non ci inganna. Lo sport non ha quell’essenza di indolente egocentrismo che ogni persona lascia trapelare ogni tanto. Quello è fisiologico per gli uomini, non lo è per gli pneumatici che sanno solo correre, per l’asfalto che sa solo farsi calpestare, per i motori che sanno solo bere benzina e farsi gli affari propri.
Come dicevo, il bello della stagione di Formula 1 è che ti dà la certezza di poter tornare in una casa ideale, un luogo mentale dove ogni fatto della realtà può mettersi per un momento in pausa. Il weekend di gara è un rifugio, una parentesi ogni tanto tra i documenti, i libri, le fotocopiatrici e le penne continuamente senza inchiostro. Sono poche ore in cui i discorsi che non vorremmo affrontare, le persone che vorremmo capire non hanno più importanza, puoi semplicemente chiuderli fuori dalla stanza.
Lo sport è qualcosa a cui pensare quando diventa tutto troppo impegnativo, è come un allarme che suona quando qualcosa sta bruciando in forno.
Adesso bisogna solo stare attenti a camminare nel campo minato dei test di prestagione. È difficile salvarsi, è facile saltare in aria. Per questo consiglierei che ognuno si facesse i fatti propri e camminasse lungo quella strada laggiù, è ai margini, non ci sono mine e porta comunque ad Albert Park. È ‘Via delle non congetture’, pesa il nobile didietro a percorrerla, tanto lo so, e come ogni anno rimarrà deserta.
Forse i romanzi del maestro fanno giri di violenza un poco inutile, ti fanno domandare in fondo se sia davvero possibile arrivare a tali livelli di follia, ma alla fine a Derry torna sempre la normalità, c’è tanto sangue, ma man mano che le pagine mancanti diminuiscono tutto guarisce, o quasi. Così il nostro annuale calvario sta per concludersi. Torneremo a prendercela con le gomme, con gli strateghi, con i piloti, con tutti i santi del paradiso, con il tombino che salta, con il sensore sulla piazzola della partenza, con le bilance, con Ocon, con la scia, con la pioggia, con gli out lap, con il sole e l’altre stelle tra soli 29 giorni, 4 ore, 49 minuti e vari secondi.
Ma chi li conta?

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