Per Anthoine

È passato già un anno. E a distanza di un anno sento il bisogno di raccontare la storia, la mia, di un pomeriggio infame.
Vi racconto quel mio sabato 31 agosto 2019, quando ero a Spa, al Raidillon.

Non lo faccio per protagonismo; in pochi di voi mi conoscono personalmente, ma penso di essere l’ultima persona al mondo a muoversi sotto questo tipo di spinta. Per quanto orribile sia, questo ricordo non voglio portarmelo dentro da solo. E spero, alla fine, di rendere anche il giusto onore ad un ragazzo che non corre più per noi.
Non sono nemmeno uno avvezzo alle lacrime, ma quel pomeriggio ho pianto più di quanto abbia mai pianto in vita mia, nemmeno per la perdita di un caro. E anche ora, a ripensarci, le lacrime mi riempiono ancora gli occhi come fosse esattamente quello stesso attimo.

Comincio.

È la seconda volta in vita mia a Spa. Ci arrivo per fare qualche foto (chi mi segue da un po’ sa di questa mia enorme passione) dai posti in cui non sono riuscito a farlo l’anno prima. Al venerdì perlustro la zona dove ho il biglietto in tribuna (e lasciamo stare il chiosco lì sotto, per chi se lo ricorda).
Ebbene, sotto la tribuna ci sono persino delle buche nella rete per scattare verso Eau Rouge da posizione invidiabile. È il mio posto; sarà il mio posto per il resto del weekend.

Sabato, F2 Feature Race. Partenza e primo passaggio della carovana.
Secondo passaggio. Arrivano, passano tutte le macchine, passano anche delle frazioni di secondo prima di vedere uno schianto spaventoso nel maxischermo di fronte. La dinamica fa paura, da subito.
Al mio fianco, a condividere la buca nella rete, c’è un inglese che immagino fosse li dal mattino, incollato alla sua sediolina pieghevole. Intorno a me molti altri spettatori, ma nessun italiano. Insomma, ormai era da un bel po’ che avevo settato il discorso diretto sulla lingua inglese, e in inglese scambio qualche parola con i miei occasionali compagni di rete. Ecco perché alla vista di quelle immagini, di istinto, mi scappa un grandissimo “Jesus Christ!”. Una imprecazione che mai avevo pronunciato prima, pronunciata poi con tale forza, quasi gridata. Solitamente nemmeno “nomino invano”. Sarà stato che forse avevo, inconsciamente, capito che bisognava subito iniziare a pregare? No. Assolutamente no.
Il pensiero che qualcuno potesse essersi anche solo fatto appena male, in quei successivi istanti, non mi sfiora nemmeno. “Dai che in pista ormai non si muore più”, pensai. “Magari qualcuno andrà in ospedale per accertamenti, magari qualcuno salterà dei GP per i postumi dello schianto, ma cosa altro vuoi che sia successo di grave?” Nulla.

Attorno a me, molti, ma molti, per non dire quasi tutti di quelli che erano accalcati sotto la rete, si spostano di corsa 300-400 metri più avanti, verso il luogo dell’incidente. Questo pensiero non mi sfiora nemmeno.

Invece che pensare a cosa potesse realmente essere successo ai piloti coinvolti, mi metto a rimuginare sulla morbosità di tutti quelli che stavano accorrendo all’uscita del Raidillon.
Così resto dove ero, e in attesa di rivedere qualche replay (tanto cosa vuoi che sia successo, in fondo in pista non si muore più, mi ripetevo), mi metto a spulciare le foto dell’ultimo passaggio. Anche se lo scatto non è un granché, intravedo lo sbandamento di Giuliano, in percorrenza di Raidillon, da cui si scatena il terribile effetto domino.

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Intanto non arriva nessun replay. Ma ancora non penso a niente di catastrofico.

Dopo 5 minuti scende da lì un pilota. È Marino Sato. Sulle sue gambe, ancora con il casco in testa. Applausi di sollievo da tutti i presenti nel vedere qualcuno illeso. Lì per lì, mi colpisce il fatto che per tutta la lunghezza della sua mesta camminata, sto pilota non ricambia all’applauso con il benché minimo cenno di ringraziamento. Non ne capisco il perché. Me ne farò una ragione qualche giorno dopo, ricostruendo dalle foto nella mia memory card quella situazione a posteriori. Sato doveva aver già capito cosa fosse successo, cosa di cui noi presenti avremo conferma parecchio più tardi; il nostro applauso credo non lo abbia nemmeno avvertito.

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Passano altri minuti. Una giovane marshal risale il Raidillon, cerca di correre con in mano uno scopone ma dopo un po’ le tocca rifiatare, è bardata di tutto punto con giaccone, stivali, caschetto, e poi quella salita non aiuta. La scena è accompagnata da altri applausi (abbastanza ignoranti, direi) provenienti sempre dalla tribuna alle mie spalle, pur sempre mezza alcolizzata.

Minuti su minuti che scorrono via, ma non si sente arrivare ancora nessuna notizia. Qualche telefonata, qualche messaggio a chi di fronte alla TV poteva aver captato informazioni fresche. E seppure di ufficiale non si sa nulla, ormai la carenza di notizie parla in tutta la sua gravità. Inutile, a questo punto, aspettare quella immagine del pilota soccorso che fa un cenno con la mano, o alza il pollice in segno di OK.

Mi decido, forzando un po’ la mia volontà, a fare quei pochi metri che mi separano dal luogo dell’incidente. Ma è passata ormai quasi mezz’ora ed è l’unico modo per capirci qualcosa. Via la fotocamera, non mi servirà. È veramente l’ultima cosa che farei quella di scattare una foto in quella circostanza.

Arrivando sul posto, il silenzio è surreale. Non una parola tra la gente assiepata lì.
I rumori arrivano solo dalla pista e sono quelli dei mezzi di soccorso che stanno completando la rimozione dei resti delle monoposto incidentate.
Per mia fortuna da vedere c’è poco altro, perché di li a poco anche l’ultimo carroattrezzi se ne va con su quel che resta di quella Dallara verniciata di rosa, su cui non si legge più nè il numero 19, nè il nome A. Hubert rimasto con l’Halo divelto e volato chissà dove. Mi ripeto solo di essere stato fortunato ad arrivare li quando tutto era ormai passato.

Ma il pomeriggio non è finito. Ci sono due ragazzi coinvolti di cui ancora non si sa niente.
Vado in fanzone dove ci sono delle tribune su cui sedersi ed un maxischermo su cui poter leggere eventuali aggiornamenti. Ma la fanzone, quando in pista non c’è azione, diventa il posto meno adatto per aspettare notizie sulla vita di due piloti.
In un GP dove la birra scorre a fiumi (ce la si può anche portare da casa a casse), l’atmosfera è caotica e rumorosa, col deejay che comincia il suo spettacolo sul palco, la musica a palla e tutti che ci ammassano sotto al palco a ballare.
Ma “the show must go on” è proprio il caso di dire. La musica va avanti inarrestabile.
E a me girano troppo i coglioni. Comincio a inveire contro l’organizzazione, via twitter ovviamente (chissà se si ricordano ancora il mio account quelli di Circuit De Spa, dopo anche la storia del chiosco sotto la mia tribuna al Raidillon).
I miei compagni di avventura a Spa, uno alla volta, raggiungono la stessa tribuna. Iniziamo a parlare tra noi dell’accaduto, a scambiarci informazioni, ma ad un certo punto non riesco più a partecipare alla conversazione.
Piangere pubblicamente mi imbarazza, e non ricordo se mi sia capitato altre volte in passato. Ma non riesco a trattenermi. Mi assale una ondata di dolore che mai avrei pensato. E vaffanculo l’imbarazzo, piango.
Qualche messaggio sul cellulare; parenti e amici che sanno dove ero mi chiedono cosa sia successo. Con una mano rispondo, sfogandomi anche con loro, con l’altra mi asciugo le lacrime.
A distanza di un anno adesso, non ricordo il momento esatto in cui giunge ufficialità della morte di Anthoine. Ricordo che piangevo già prima e che ho continuato a piangere dopo. Ricordo la musica prima, e ricordo la musica dopo! Altro giramento di coglioni. Altro tweet all’organizzazione. La notizia ormai via internet è confermata da un bel po’, ma sembra che non sia ancora arrivata all’orecchio dell’organizzazione. Non era affatto normale quella atmosfera di indifferenza mentre si era appena consumata una tragedia di lì a pochi metri.

Finalmente dopo qualche lungo minuto il deejay abbassa il volume. La musica si ferma. La gente sotto al palco non capisce ed inizia a fischiare. Il maxischermo sul palco annuncia ai presenti la morte di Anthoine e allora le anime si calmano. Parte l’applauso. E da lì inizia il desolante e desolato esodo dei presenti.

Ad un certo punto riesco a smettere di piangere. Ma non capisco perché lo abbia fatto per così tanto tempo e con così tanto trasporto. Nemmeno ricordavo che pochi mesi prima Anthoine avesse vinto a Montecarlo sotto i miei occhi. Per quanto ami il motorsport, purtroppo a stento riesco a seguire integralmente la stagione di F1, figuriamoci la F2 e le altre categorie affini. Allora perché la morte di un ragazzo, per me semisconosciuto, mi aveva scosso fino al midollo?

Difficile da dire, ma credo di aver capito semplicemente cosa sia, in fondo, il motorsport.
Escluso l’ovvio, ossia quello che ci emoziona, i duelli e l’azione in pista, il motorsport è anche altro, ma certamente non è quello delle lotte politiche tra i giganti dell’automobile per questo o quell’accordo, non è quello degli sponsor, non è quello dei diritti TV.
È quello dei bambini che crescono con un sogno, delle loro famiglie che si tirano duramente su le maniche per permetterglielo, di tanti onesti meccanici che lavorano con grande sforzo nei box, di noi tifosi, sia quelli che vengono in autodromo da mezzo mondo che quelli che seguono da casa.
È una famiglia, la grande famiglia del motorsport, mossa da emozioni, ambizioni, desideri, passione, sacrifici, gioie, dolori.
Mi sono sentito parte di questa famiglia e il lutto che l’ha colpita brutalmente ha colpito in pieno anche me.

Ciao Anthoine, la tua famiglia non ti dimenticherà mai.

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