Quando c’era lui…

Succedono cose strane, nel mondo, in pista, su questo blog. Ma dato l’entusiasmo con cui gli ultimi strani articoli, comparsi senza una vera motivazione ma sicuramente con tanta classe, sono stati accolti dalla critica, vorrei aggiungerne un altro. No, non tratta purtroppo di come scrivere un paper “cheaply and fast”, è chiaro a tutti che non sono in grado di farlo, come dimostra appunto questo pezzo che arriva, tutt’altro che “cheaply and fast” (hehe).

Iniziamo con un piccolo momento nostalgia. 2018. Anno di sogni interrotti e cuori infranti, macchine dominanti che da Singapore già avevano iniziato a dare SF90 vibes (non lo diciamo troppo forte però), incidenti finisci-carriera (aggiungi occhi al cielo qui) e ordini di scuderia che hanno dato vita a uno degli scatti più iconici della vita di twitter, “Valtteri it’s James…”, povero Valtteri, no, non vuole farti i complimenti perché stai dominando questa gara in Russia.

Fatto sta che il 2021  ha chiaramente nostalgia di quell’anno meraviglioso e ha deciso di regalarci due episodi che ricordano in maniera vagamente inquietante due cosine senza peso successe tre anni fa: due lunghi di un campione del mondo, che, notate, è una denominazione quantistica perfetta per chi vuole usarla sia per denigrare sia per lodare.

Ma mentre Hamilton è stato molto più fortunato a Imola di quanto lo fosse stato Vettel ad Hockenheim, sicuramente le parti si sono invertite a Baku, stessa curva, stesso bloccaggio, diverso risultato.

Ora, non c’è bisogno di fare una particolare dietrologia sugli eventi, non significa niente, ma soprattutto non interessa a nessuno.

Il mio punto è un altro, anche se la stagione è così lunga che facciamo in tempo tutti a cambiare idea, fare giri immensi e ritornare qui, ma tant’è, qui siamo e qui parliamo. Vorrei tirare fuori e prendere a sberle questa narrativa che sta girando sulla bocca di più o meno tutti. Anzi, vi scrivo prima la risposta di Sebastian Vettel a qualcuno che ha sentito il bisogno di porgli la questione, che facciamo prima:

I drove before too, and did not become a different person”

Questa idea del “quattro volte campione del mondo è tornato”, “abbiamo rivisto il vecchio Vettel”, “dove è stato?” è un po’ vecchio stile e la risposta del diretto interessato riassume un poco il punto.

Fosse uno sport fatto di robot, di cose che succedono da sole, di singolarità autonome, vi direi ok, avete ragione, ha senso. Qui però non si tratta di questo, nessuno sport sul pianeta tratta di questo, e Lewis stesso domenica ce lo ha dimostrato.

Qualsiasi sport ruota intorno al dover spesso sapere accettare. Accettare di avere sbagliato, accettare che l’altro è momentaneamente più forte, accettare che non c’è nulla di scritto, che non si può essere perfetti, che il tuo colpo di rovescio finisce in rete se non lo colpisci bene e bisogna andare subito avanti, che dalla corsia accanto arrivano al doppio della tua velocità e devi solo guardare la piastra davanti a te perchè è quello il tuo obiettivo, che non sei riuscito a vincere la gara, non sei riuscito a fare punti, non sei riuscito ad arrivare alla bandiera a scacchi. Accettare che a volte il quadro complessivo è troppo grande, l’obiettivo finale è troppo lontano, ragiona punto per punto, metro per metro, curva per curva. A volte non ci può essere nient’altro se non quello che ti sta immediatamente davanti. E i mesi passano e forse accettare diventa difficile, ma alla fine sei sempre lì, non sei andato da nessuna parte, è solo un’altra fase, un altro metodo, altre sfide. Andarsene non significa arrivare fuori dai punti perché non hai feeling con la macchina, fare errori gratuiti, non essere veloce come lo sono gli altri. Bisogna lavorare per raggiungere gli obiettivi che ci competono, concentrarsi e applicarsi, se a volte il lavoro che si fa non è quello a cui gli altri sono abituati forse sono loro non abbastanza attenti a trovarti, e non tu che “non sei ancora tornato”.

L’ho già detto, ma lo credo davvero, lo sport è costruire, in pubblico, in privato, sé stessi, il proprio ambiente. È ragionare secondo per secondo, perché a volte è tutto troppo difficile da riportare ai fasti del passato nel lasso di tempo che tutti si aspetterebbero.

Lewis è lo stesso che negli scorsi anni è stato perfetto, sempre sul pezzo, con motivazioni al suo successo così numerose e complesse che potremmo parlarne per tutta la notte, ma meglio di no, che c’è ancora il coprifuoco e i tifosi di Vettel sono una “audience suscettibile” e anche agevole all’arresto.

Quindi forse, quando un pilota sembra non agire secondo i canoni e la semplicità di movimento che ci eravamo prefissati per lui, non è perché è andato a farsi un giretto, non è quello di prima, gli è passata la voglia, ma semplicemente è perché la strada si è fatta impervia e sta lavorando per tagliare via la sterpaglia. Persino l’asfalto più liscio è corruttibile e ha bisogno di manutenzione, tu senti che metafora arguta.

Vorrei che questa prima parte di stagione di Lewis ci ricordasse che si possono avere tutte le convinzioni del mondo, così come ci si può sentire fieramente schierati da un lato ben preciso, ma la verità è che non si può eliminare la complessità dalle questioni, non si può giudicare tutto senza considerare tutte le dimensioni, senza la consapevolezza che non tutto può essere ridotto a delle banalità da bar. Vorrei dire che per quelle ci sono già i commentatori in tv, ma non lo dico dai.

Fine.

Non è vero: a conclusione vorrei fare una polemichina, piccola, inoffensiva, anche se avevo giurato a chi di dovere di non farlo, quindi saltate le prossime due righe e tornate al Fine, come al gioco dell’oca.

Dunque: dire “il problema di Vettel sono i suoi tifosi” non cambia il peso delle cattiverie che si scrivono, non fa dei suddetti tifosi la parte cattiva e degli altri le vittime di una società corrotta.

E ora me ne vado, così non devo argomentare, ciao.

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