Teoria dell’obiettività ristretta
Quest’anno è successa una cosa incredibile, irripetibile e, per chi è religioso, quasi profana. Per la prima volta abbiamo avuto due domeniche di Pasqua.
Ve lo dimostro: nella prima a risorgere è stato il solito, come ogni anno, avvertendoci stavolta di non contare più su di lui, perché tanto da ora in poi farà finta di non sentire più le imprecazioni che lo coinvolgono. Che fosse serio o meno, il 21 Aprile lui ha piantato baracche e burattini e ha tolto il disturbo.
Potremmo anche dire che quello stesso giorno forse sono risorti in due, il secondo ci è riuscito su un campo di terra rossa, trascinando in paradiso con sé gran parte dello sport italiano, ma questa è un’altra storia, da raccontare e conoscere, ma magari in altra sede.
Non è finita qui però. Mi piacerebbe davvero tantissimo dire che sette giorni dopo quegli eventi gloriosi sono risorte anche le nostre speranze e i nostri preziosi sogni mondiali, che improvvisamente la Ferrari ha finalmente lasciato il suo stato di morte apparente per rinascere e dare letizia ai nostri cuori doloranti. Ma niente, tutto quello che avrei voluto richiamare alla vita è ancora morto e sepolto, e pace all’anima sua. Arriverà, ma non è ancora questo il giorno.
Però la sacra seconda Pasqua c’è stata e qualcosa è davvero ritornato alla vita, seppur con una settimana di ritardo. Anzi, rilanciamo e diciamo che questo qualcosa in realtà è nello stesso giorno morto e risorto.
Sto parlando del più grande nemico delle folle, sto parlando della spaventosissima Teoria della Relatività, riformulata dal nostro caro amico Einstein, non ci interessa quando e non ci interessa dove, e sono fiduciosa che se non mi cacciano dall’Università dopo questa mia dissertazione non lo faranno mai più, quindi ecco la spiegazione.
Prendiamo la Relatività ristretta, che ci basta e avanza, non è niente di che, non fate quelle facce. Ecco, quello che disse Albert, ispirato secondo la mia immaginazione dalla noia di una domenica senza gran premio, fu, molto in breve e molto alla buona, (attenzione perché questo è il momento in cui potrei perdere il mio diritto allo studio) che per un corpo che viaggia a velocità prossime alla velocità della luce (nel nostro caso le monoposto di Formula 1) il tempo e lo spazio sono relativi all’osservatore, insomma vuol dire che non è detto che per tutti il rettilineo di Baku sia lungo più di 2 km, per qualche fortunato potrebbe magari essere più corto.
Vi faccio un esempio di tempo non assoluto. Se nel suo sistema di riferimento la Ferrari si trova in un certo punto del circuito in un certo istante, Toto Wolff dal canto suo la vedrà invece in quello stesso punto 5 decimi di secondo prima. Si troverà assolutamente in diritto dunque nel dire che la Ferrari è 5 decimi più veloce della sua Mercedes. Tutto chiaro? Più o meno, ma meglio andare avanti.
Anni di studio dunque non mi avevano convinto che questa teoria fosse sensata, e ho trascorso tanti pomeriggi a lambiccarmi il cervello sulla questione, finché finalmente dopo la gara di Baku non ho avuto la rivelazione e ho capito.
Il tempo è relativo, quindi quello che dice il cronometro anche; lo spazio è relativo quindi quello che dice la pista anche. Ognuno può leggerci quello che vuole, ogni osservatore vedrà una cosa diversa. E come ovvia conseguenza, come ogni buona osservazione empirica che si rispetti, ognuno ne trarrà una conclusione diversa. Chiaramente, come ogni buona osservazione empirica che si rispetti, nessuno avrà torto.
Ma aspetta. Quindi quando leggo che un pilota è stato chiaramente peggiore del suo compagno di squadra in un weekend in cui gli è finito davanti non è malafede, non è presa di posizione, è proprio fisica. Va bene allora, perché io della fisica mi fido ciecamente, e sono più tranquilla.
Ti insegnano che devi essere furbo e metterti nel sistema di riferimento giusto per capire le cose, forse intendono che devi guardarti intorno e sceglierti quello più comodo. Da qui vedrai tutto relativamente a quello che vuoi davvero vedere, è semplice: intendevi proprio questo, vero Albert?
Ora ho capito. E in una volta ho compreso finalmente due cose: la fisica e la Formula 1.
Quello che continuo a non capire, che mi scivola dalle dita quando penso di averlo afferrato, è il motivo. Prima ho sbagliato quando ho detto che è morta e risorta. Avrei dovuto dire che al contrario è prima risorta e poi, dopo essere stata sfidata, stiracchiata e strappata così tanto, persino la Teoria della Relatività si è arresa ed è defunta. Poverina. Forse in questo contesto era tutto troppo relativo per non essere addirittura falso.
In verità io provo invidia. Provo invidia per chi è in grado di volare sulle cose dall’alto e vedere ogni cosa da un perfetto e asettico punto di vista clinico. Provo una gelosia bruciante per chi riesce a girarsi dall’altra parte e con distacco dire “Non mi riguarda”. È più sano, vivi meglio, dici no alle discussioni, dici sì all’alzata di spalle e ai “lasciali parlare”.
Non funziona, ci provo, mi giro, alzo le spalle, ma ci sto ancora pensando. E sento fortissima la sensazione che se lascio perdere, se inizio a “fregarmene”, faccio un danno non risanabile. Se facciamo finta di non aver sentito, tutto diventa davvero troppo relativo.
Ma il rispetto non è relativo, da nessun punto di vista, questo te lo insegnano già all’asilo, non c’è bisogno di frequentare un corso di fisica all’università per saperlo. “Relativity applies to physics, not ethics”, sempre Einstein.
Quindi, se dici che Vettel è finito e merita di essere cassato senza pietà perché non ha talento, stai mancando di rispetto.
Se dici che Vettel guadagna troppo per quello che dimostra in pista, non solo stai dicendo una colossale baggianata (come sono educata), non solo ti stai dimenticando di episodi in cui ci ha salvato il culo (ah no, forse non lo sono tanto) in diverse occasioni, non solo stai svilendo il lavoro di un pilota, accarezzando il fondo di questa discussione, ma stai mancando di rispetto ad una persona.
Se dici che preferiresti un altro al suo posto, se dici che Tizio avrebbe fatto meglio di lui in Ferrari, non solo stai sminuendo l’impegno di uno che ha preso batoste su batoste per cinque anni (and counting) senza mai lamentarsi, senza mai una parola di troppo contro strategie inette e monoposto inguidabili, ringraziando per la “grande macchina” pure quando per portarla alla bandiera ha dovuto tirare fuori i piedi come i Flintstones, chiedendo scusa anche se era stato il padreterno in persona a scendere per impedirgli di vincere una gara, ma stai anche e soprattutto mancando di rispetto.
E mentre la memoria degli eventi, delle parole e delle situazioni sembra diventare sempre più relativa a ciò che più fa comodo, in un senso e nell’altro, queste sono mancanze di rispetto verso una persona in modo assoluto, soprattutto se quello che viene detto, inneggiato, proclamato, finisce su dei fogli, cartacei o riempiti furiosamente tramite una tastiera, lanciati poi in pasto al mondo. Tenete, prendetene e mangiatene tutti di questo odio, è gratis e non vi farà ingrassare.
Non so come e perché sia iniziata, ma a mio parere un limite sta per essere superato, se non è già successo.
Non è un punto di vista relativo dire che a Baku Vettel non ha fatto errori, perché semplicemente non ne ha fatti. È invece una distorsione della realtà dire che è stato fortunato per l’incidente del compagno in qualifica o per la virtual safety car a fine gara, che gli ha salvato la possibilità di podio. Non hanno senso le risatine di superiorità, le allusioni agli aiutini, le frasi sussurrate “voglio vedere la prossima volta”. Se giriamo le spalle davanti a queste parole, “lasciali parlare”, abbiamo perso.
È un punto di vista relativo amare o meno un pilota, lo capisco, è uno sport, tutto nella norma, ma non lo è disprezzarne un altro.
Alla fine della giornata, con i piedi sul tavolino del soggiorno, tutti sappiamo tutto, tutti diciamo tante cose, ma, se è vero quello che la fisica ci insegna, in fondo nulla di tutto questo è importante, tutto è relativo, oggi penso questo, domani penso quell’altro, e ogni giorno avrò ragione.
Dicono infine che “true love waits” e per me una verità assoluta esiste davvero e dice che ad un certo punto, tra sei mesi o sei anni, si stancherà di aspettare e alla fine, con un colpo di scena degno della miglior scoperta scientifica, vi farà dimenticare di avere odiato a tal punto.