May this be love
Maggio è stato impegnativo, sotto tutti i punti di vista. Mettici la pioggia, mettici gli esami, mettici tutto quello che vi ha impegnato in queste settimane, mettici le ricorrenze e le occorrenze. Poi prova a metterli in ordine di importanza e, nonostante le scarpe zuppe e i panni da rilavare, la prima per importanza no, non sarà la grandinata della scorsa settimana e, per quanto mi riguarda, scopro che no, non è l’esame, nonostante tutto l’impegno.
A Maggio sono successe così tante cose che le opzioni sono due: facciamo una lista con i puntini o i numerini e poi sommiamo tutto in un unico commento superficiale (l’indignazione che mi provoca ciò è dovuta al fatto che si tratta della strada maggiormente percorsa, ultimamente) oppure le mettiamo tutte insieme, le incorniciamo e le raccogliamo dove possono essere ammirate per tenerle lì per sempre.
Io ho sempre pensato che nello sport, perché è questo quello di cui parliamo qui, ci sono storie che sono troppo grandi per essere raccontate, così grandi che ti fanno sentire talmente piccolo, che se qualcuno entrasse nella tua stanza mentre accadono non ti troverebbe proprio, perché avresti raggiunto le dimensioni di quel granello di polvere laggiù.
Perché come può farti sentire qualcuno che dopo mesi e mesi di difficoltà, pur essendo vincitore di tre dei quattro tornei più importanti del tennis, riesce a battere uno che, più che una stella, è una supernova del tennis mondiale, di quindici anni più giovane? E non è la tenuta fisica che più ti stupisce, non è la velocità nella corsa o la pesantezza dei colpi, ma la voglia, l’impossibilità di lasciarla andare, in una battaglia di cinque ore e mezzo, la ritrovata consapevolezza di potercela fare. Che sia facile, dopo partite perse in maniera desolante, dopo infortuni da cui riprendersi sembrava impossibile, a quasi trentacinque anni, io ne dubito.
E cosa puoi dire di qualcuno che per anni si è sentito, e forse è stato, nel posto sbagliato al momento sbagliato, quando tutti quelli più giovani lo superavano e ce la facevano, mentre lui stava sempre lì, in attesa. Quando aspetti, anche se hai tutto l’ottimismo e la positività del mondo, anche se continui a ripeterti “andrà bene, non preoccuparti, abbi pazienza”, il tempo non passa mai lo stesso, e la sensazione che le occasioni ti stiano scivolando dalle mani non ti abbandona, anche se tu lavori e lavori ancora, è come un fondo fisso ad un’unica frequenza, sta lì, disturba, ma fai finta di non sentirlo. E poi quando arriva il momento, in cui hai il tiro in canna, quando devi essere tu a metterti da solo nella posizione di vincere, dopo tanti sacrifici e tanto tempo in cui la maggior parte delle cose che potevano accadere non dipendevano da te, o trovi, da qualche parte nella tua pancia, il coraggio di farcela o ti rendi conto che forse il fallimento sarà impossibile da perdonare. Per questo motivo il sorpasso di Petrucci sugli altri due, all’ultimo giro del gran premio di casa, secondo me è da non dormirci la notte per settimane. La linea tra disastro ed eroismo era sottile, eppure è risuonata armoniosa come fosse stata suonata da Hendrix in persona.
Storie come queste ti fanno stare meglio, ti fanno capire che se le cose fossero facili e accessibili, poi non sarebbero così significative e speciali nel momento in cui finalmente trovano la loro felice conclusione. Ti rimangono addosso, forse a volte te ne dimentichi, forse per un poco se ne vanno, svaniscono tra gli impegni e le preoccupazioni, tra il rumore e la confusione, ma alla fine tornano e tu le ritrovi nel cassetto, nella borsa, vicino alle chiavi che avevi perso. Chi le ha vissute dopo un poco di tempo fa di tutto per sminuire quello che è capitato, per far capire che non era niente di che, che ha fatto solo quello che doveva. Tutto ciò forse sembra falso a noi, ma non lo è nella sua testa, è solo la logica conseguenza del ragionare da campioni: alla fine riuscire a farcela è naturale.
Sono storie che si muovono a fianco di quelle che ancora risuonano dopo quarant’anni, che ancora ci condizionano anche se sono capitate quasi vent’anni prima che nascessimo, che ancora quando siamo davanti a un ostacolo che ci sembra di non potere superare, con il cuore che batte un poco troppo veloce, ci danno il coraggio di fare quel passo in più, quello che sappiamo fare ma che in quel momento ci dimentichiamo di conoscere. È il cuore di quegli altri che usiamo in quei momenti, quando il nostro fa un poco cilecca, e anche se non li abbiamo conosciuti, non ci abbiamo mai parlato, è la loro voce che ci esorta e che ci incoraggia. È come se stessero seduti vicino a noi, stretti accanto alle persone “reali”, a dirci che possiamo farcela anche stavolta. È per il valore che abbiamo dato loro e che loro hanno dato alle loro azioni e intenzioni che ci sembra di conoscerli da una vita, che hanno così tanto potere su di noi.
Potrei continuare così all’infinito, perché su queste cose qui lo sport galleggia. Queste settimane sono state impegnative perché storie come quelle sopra si sono ammassate e sovrascritte, una sull’altra, coinvolgendo quasi ogni tipo di sport, dal tennis alla Formula 1, dal basket alla MotoGP, dal ciclismo al salto della pozzanghera. Forse alla fine sarebbe meglio dire che siamo proprio noi che galleggiamo su queste cose.
Credo che dopotutto abbia ragione quel bollito di Kimi Räikkönen a dire che tutte le cose attorno allo sport in sè sono “bullshit”. Tutto il gossip, il pettegolezzo, le voci di corridoio, hanno un’importanza troppo volatile per restare, impallidiscono e per qualche fortunato secondo può pure capitare che scompaiano, e lo sa bene lui, che qualche mese fa una storia clamorosa ce l’ha raccontata senza avere nemmeno la pretesa di farlo. Ma d’altronde Kimi ha sempre ragione, quindi di cosa stiamo parlando?
Forse stavolta non ho parlato di Formula 1 nemmeno per un secondo, o forse in fondo ho parlato solo di quello.
Una cosa è certa parlando di Ferrari: se aveste detto a una delle persone citate sopra che il mondiale è già finito e bisogna arrendersi, vi avrebbero voltato le spalle e se ne sarebbero andate, lasciandovi come allocchi, e di essere allocchi vi avrebbero accusati alle spalle, indicandovi da lontano con il dito indice puntato che neanche il fantasma del Natale passato sarebbe potuto sembrare più accusatorio, non so se avete presente.
Quindi, se volete, siate degli allocchi, ma ricordatevi che, a crederci, quelli sopra hanno vinto tutto quello che potevano, hanno superato la loro condizione di eterni secondi, hanno sfidato le leggi della fisica e della medicina. Eppure potreste sempre ripensarci, il tempo c’è, passate dalla loro parte.
Dice qualcuno che almeno una di queste storie è appena giunta al suo capolinea, che si è infine conclusa.
Ma la verità più bella è che, con un colpo di scena finale degno della più adrenalinica gara di auto, pur facendo finta di chiudersi, ha invece appena iniziato a crescere.