Us and Them
Per la mia personalissima esperienza di appassionata di tennis so benissimo cosa significhi essere un coach: passo interi pomeriggi a consigliare al mio televisore di fare cose tipo giocare di dritto, mettere la prima di servizio, andare sottorete e anche giocare i punti con calma. Parlo con lui ma vorrei che il mio interlocutore fosse il giocatore che sta in campo oltre lo schermo, cosa che, per fortuna, non può succedere. Quindi conosco bene quella sensazione di pensare di sapere cosa sarebbe stato meglio fare al posto suo subito dopo che ha perso un punto, anche se io una racchetta in mano non l’ho mai tenuta, forse solo una volta e sono stata derisa persino dalle palline.
Nella Formula 1 capita la stessa cosa, ogni weekend c’è un consiglio da dare al pilota di turno: come completare al meglio il primo giro in Ungheria, come prendere la chicane della piscina a Montecarlo, se scendere o meno in pista con un acquazzone a Spa, etc. C’è sempre chi ne sa di più, chi farebbe meglio, chi otterrebbe di più. Ci sono i fan di quel tedesco con la numero 5 che a queste cose sono abituati: tutti sanno meglio di lui come fare i sorpassi in seconda variante a Monza, come gestire “i limiti della vettura”, come guidare sotto la pioggia con gomme da asciutto finite ad Hockenheim, quando alzare il piede, quando abbassarlo, quando tenerlo a metà, insomma sanno sempre tutto, sanno sempre molto di più. Ma mannaggia, questo egoista che non vuole ascoltare nessuno. Ma di questo non parleremo qui oggi perché anche basta Eugenia, smettiamola.
Oggi parleremo dello strano mondo in cui un pilota di Formula 1, che ha corso probabilmente per tutta la sua vita, deve ascoltare i consigli di uno sconosciuto che, al massimo, ha guidato una Panda 4×4 nelle stradine di San Romano Montopoli Santa Croce (che forse non è un unico posto, ma in stazione lo pronunciano sempre tutto attaccato, e così lo so e ve lo riporto).
Fatto sta che è naturale, come per me lo è consigliare a Roger Federer di spingere il rovescio invece di tagliarlo, oramai sentirsi in grado di dire cosa è, e anche cosa non è, giusto per chi corre per mestiere a 300 km/h un giorno sì e l’altro pure. Di solito i consigli che vengono dati, oltre a comprendere trucchetti di guida da bisbigliare con quel tono da “io facevo meglio” speciale che sopravvive nei secoli dei secoli amen, comprendono l’invito a provarci di più e, in determinati casi particolarmente illuminati, ad essere più coraggiosi. Persone che quando guidano sul bagnato assomigliano moltissimo al signore che oggi mi stava investendo perché “signorina lei con la bici cosa ci fa ferma allo stop mentre io le voglio passare addosso invadendo la sua corsia?” ma che invece si credono Schumacher a Barcellona nel ’96, si sentono in dovere di affermare con tutta certezza che quei venti scemotti lì non sono abbastanza coraggiosi per questo sport. Mi sono chiesta quindi, mentre per l’appunto stavo ferma a quello stop ad attendere che il gentile signore smettesse di insultarmi e imparasse le molteplici funzioni delle linee bianche disegnate sull’asfalto, cosa sia alla fine dei conti il coraggio.
È vero che non c’ero, è vero che non sono esperta in storia della Formula 1, è vero che mi sono persa tante cose, è tutto vero, il pilota per cui tifo mi giudicherebbe abbastanza. Ma in questi anni troppo pochi per tanti, ho capito una cosa: quando si parla di Formula 1 non si è mai abbastanza. Non si è mai abbastanza forti, abbastanza duri, abbastanza aggressivi, abbastanza preparati. Non si è mai abbastanza eroi. Ma cosa significa? Perché per essere eroi si deve dimostrare di non aver paura di condizioni difficili che le monoposto attuali non sanno affrontare nella maniera più sicura? Perché nel 2021 ancora parliamo di essere eroi solo se si affrontano situazioni potenzialmente pericolose? Vale uno sport la possibilità di farsi male? Di dover concludere la carriera in anticipo per infortunio? Di dover passare mesi e mesi su un letto di ospedale? Vale uno sport la pena di morire?
Non gioiamo ogni giorno per i passi avanti fatti dalle vetture e dagli ingegneri in termini di sicurezza? Non piangiamo ancora chi non ne ha giovato abbastanza? È passato meno di un anno da un incidente che non è stato fatale solo perché si è lavorato tanto tantissimo per far sì che non succedessero più tragedie. Non si è abbastanza eroi ad ammettere che non vale la pena distruggere tutto questo lavoro per il capriccio di correre in condizioni proibitive solo perché era previsto così? Non è troppo egoista pretendere una cosa del genere da ragazzi di 20, 30, 40 anni? Per cosa poi? Niente vale rischiare la propria salute, nemmeno dover dimostrare al primo che passa che si ha la stessa passione di un pilota che purtroppo 50 anni fa ha perso la vita mentre correva. Credo che non si misuri così l’impegno, l’attaccamento, il trasporto per la Formula 1. I piloti in generale sono sportivi eccezionali, fanno sembrare facile raggiungere velocità impressionanti e frenare nella mattonella di asfalto corretta, superare con scioltezza un altro che va alla loro stessa velocità, affrontare una chicane mentre fanno regolazioni sul volante. Discutono in radio con il loro ingegnere di strategie e pneumatici mentre corrono, quando noi la radio la dobbiamo spegnere per concentrarci mentre parcheggiamo.
Si possono avere le migliori intenzioni, quelli che hanno le cattive intenzioni e la maleducazione li ignoriamo, ma fare finta di non sapere, di non capire, avendo presenziato, vista la grande esperienza di appassionati di F1, a tutti i cambi regolamentari, che per alcune cose non vale la pena rischiare, è un atteggiamento superficiale. Mi dispiace per tutti coloro che sono rimasti sotto la pioggia, nel fango, in mezzo alla strada per ore: fa schifo, ma personalmente non vedo come si possa puntare il dito sui piloti.
Ho letto tanti commenti, da una parte e dall’altra, e trovo che non siano mancati gli spunti tecnici necessari per comprendere lo stato delle cose. Credo che questo sia il momento giusto per accettare di avere tutti un nemico in comune, contro cui non stiamo concentrando abbastanza energie negative: quella insopportabile entità che prende il nome di parco chiuso. Quanta differenza può fare in queste occasioni? Tanta, a quanto pare. C’è chi ha chiesto “e allora il sabato?” (da leggere con lo stesso tono de “e allora i marò?”) e c’è chi ha saggiamente fatto notare che il sabato la possibilità di rimanere distanziati per evitare gli spray alzati dalla monoposto davanti e avere una visibilità consistente era molto più alta (spray e distanziamento, vi ricorda qualcosa?). Per quanto ammiri Vettel non credo che sia un veggente: non credo che la mattina si fosse svegliato leggendo nelle stelle che Norris avrebbe sbattuto alle ore tot. Credo che ci sia esperienza, conoscenza tecnica del mezzo e della pista (d’altronde tanti piloti avevano fatto presente che le condizioni non ci fossero per iniziare quel Q3). I piloti sono in pista e danno il feedback più realistico, ma chi può avere una visione generale migliore di quella che ha il direttore di gara?
Ritornando a quanto dicevo prima quindi, alla fine della fiera ho pensato che forse il coraggio è saper tirare una linea tra l’essere eroi nella mente di qualcuno ed essere eroi nella situazione reale. Capire che non si onora una pista, uno sport, un popolo di tifosi, rischiando di non tornare a casa in tempo per la cena, qualunque sia il prezzo: un biglietto non rimborsato, un pomeriggio perso, un tifoso tradito. E non, forse questo punto non è abbastanza chiaro, perché i tifosi, la pista, il tempo degli altri non abbiano valore, anzi il contrario, lo hanno eccome, e questo non deve essere preservato in maniera casuale, bisogna che chi di dovere ci lavori a fondo, perché i tifosi fanno parte dello sport, così come i piloti. Eppure in questo caso la direzione gara sembra non aver guardato in faccia nessuno, mi sa che era troppo occupata a guardarsi in tasca.
Forse alla fine dei conti una cosa che possiamo imparare da questa storia è che per chiedere il rispetto che ci è dovuto dobbiamo guardare alla parte di persone che la Formula 1 la governa, e non a quella che la rende magnifica.